domenica, ottobre 20, 2013

L’assunzione dei precari della PA: errori di merito e metodo

di Clemente Pignatti*.
Zingaro. I am a gipsy too.
Zingaro. I am a gipsy too.
Ha suscitato un vivace dibattito la normativa contenuta nel decreto legge di fine Agosto del Governo
volta a regolamentare l’occupazione a tempo determinato nella pubblica amministrazione. Il provvedimento era atteso da alcuni mesi e non è stato al centro di particolari scontri politici tra le forze di maggioranza, nè con i sindacati. Il testo del decreto ristabilisce come prima cosa che il ricorso a contratti a tempo determinato possa essere giustificato esclusivamente “per rispondere a esigenze temporanee o eccezionali”. La parte più rilevante è tuttavia quella che impegna lo Stato ad assumere mediante concorso parte dei collaboratori precari che abbiano maturato 3 anni di lavoro nell’amministrazione pubblica durante gli ultimi 5. I sindacati stimano che la platea dei lavoratori interessati sia di circa 150 mila persone, di cui 50 mila dovrebbero essere assunte.
Il Governo ha tentato di far passare il provvedimento come una norma a favore dell’impego giovanile e di contrasto alla precarietà, temi giustamente al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica. Il fatto che si siano mobilizzate risorse per stabilizzare lavoratori precari è poi sicuramente un dato di fatto positivo. I dubbi rimangono però circa il metodo perseguito, la tutela del principio di meritocrazia e la priorità accordata alla pubblica amministrazione.
Riguardo al metodo, il problema è che se – come è stato ripetuto da membri del governo e sindacati – queste stabilizzazioni sono necessarie in quanto i lavoratori attualmente impiegati con contratti atipici forniscono servizi essenziali alla pubblica amministrazione, allora i contratti con i quali questi lavoratori sono attualmente assunti sono da considerarsi nulli sotto il profilo giuridico, in quanto i loro compiti dovrebbero essere svolti da personale regolarmente assunto in maniera permanente tramite concorso pubblico. La legge infatti prevede già che il ricorso a contratti a tempo determinato possa essere effettuato solo in casi eccezionali e per compiti che eccedono il normale svolgimento delle funzioni. In questi termini, più che una stabilizzazione si tratterebbe di una sanatoria per un comportamento illegittimo.
Il problema non è però solo di credibilità, ma anche di violazione delle regole di competizione meritocratica per l’accesso all’impiego nella pubblica amministrazione. Infatti, i concorsi che verranno aperti saranno accessibili esclusivamente ai lavoratori precari che hanno lavorato per 3 degli ultimi 5 anni nella pubblica amministrazione. In questo modo, verranno necessariamente ridotti i posti di lavoro accessibili tramite concorso aperto a tutti, che dovrebbe invece rappresentare la via unica di assunzione nella pubblica amministrazione (Articolo 97 della Costituzione). L’illecito giuridico quindi non solo viene sanato come descritto sopra, ma rappresenta addirittura un vantaggio competitivo nella ricerca del posto di lavoro. Inoltre, la semplice specificazione contenuta nel decreto secondo cui contratti a tempo determinato possono essere stipulati solo per ricorrenze specifiche e straordinarie non introduce alcuna novità da un punto di vista giuridico ed è quindi destinata a non intaccare l’arbitrarietà con cui anche nel pubblico si fa ricorso a contratti di lavoro atipici. Il dubbio è ulteriormente rafforzato dal fatto che provvedimenti simili siano già stati adottati – l’ultima volta nel 2008 – sempre impegnandosi a non assumere ulteriormente lavoratori precari.
L’ultimo punto riguarda invece l’opportunità di aumentare l’occupazione nel settore pubblico proprio in un momento di crisi in cui la tassazione raggiungi livelli massimi, pari al 42 per cento del PIL.  Di precari in Italia ce ne sono molti – il 51 per cento dei giovani occupati ha un contratto a tempo determinato – e la solerzia con cui si stabilizzano quelli che lavorano nella pubblica amministrazione non può che far pensare ad una disparità di trattamento rispetto ai lavoratori atipici del settore privato o del no profit, che un contratto a tempo indeterminato non lo ottengono per decreto legge e spesso ben dopo 3 anni di lavoro. Questo genera anche dubbi circa l’efficienza nell’impiego di risorse, utilizzate per aumentare la spesa pubblica invece che per stimolare l’occupazione nel settore privato.



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