mercoledì, agosto 30, 2006

29.8.06
Sassari. Call center: 400 assunzioni ma solo per 2 mesi
«I requisiti indispensabili per candidarsi sono: ottime doti comunicative; flessibilità; orientamento al cliente e disponibilità a lavorare su turni». Requisiti richiesti dalla società Comdata di Torino per selezionare e assumere 400 persone da destinare in un call center che il gruppo piemontese intende aprire nel nord Sardegna. Un rilancio dopo il ciclone che il Governo nazionale sta scatenando sui call center, oggetto di controlli a tappeto per verificare le condizioni di lavoro delle migliaia di addetti. Un vero e proprio esercito di precari, come quelli che la Comdata si appresta ad assumere. «Le persone selezionate saranno regolarmente assunte con un contratto di lavoro a tempo determinato», si legge nel comunicato diramato dalla Adecco, società di lavoro interinale incaricata di reclutare gli aspiranti telefonisti per la Comdata. Il tempo è determinato in due mesi, ma per i fortunati che supereranno le selezioni il futuro non sarà poi così incerto: dopo i primi due mesi di lavoro potranno godere di un contratto di inserimento di ben 12 mesi. Un contratto part-time, naturalmente: 4 ore di lavoro al giorni, 20 settimanali). Chiuso l'anno di inserimento, le porte del call center rimarranno aperte: in nome della flessibilità i 400 ormai esperti telefonisti potranno, forse, giovarsi di una ulteriore proroga. Tutto questo con un contratto «al 2° livello del CCNL delle Telecomunicazioni e uno stipendio di 700 euro lordi». Su qualsiasi ulteriore particolare dell'offerta che ingrosserà l'esercito dei precari, la Adecco non cede e si trincera dietro l'invalicabile privacy: impossibile sapere dall'agenzia interinale anche il solo nome della società che ha indetto le selezioni. Ma la promessa di 400 assunzioni in un territorio dove la disoccupazione è diventata ormai cronica, non può passare inosservata: in città la voce si sparge in un baleno, le speranze di assunzione volano di bocca in bocca, e in serata il nome segreto della società benefattrice è gia noto a tutti. Alla Adecco non confermano nulla se non la proposta di assunzione, e si sbottonano solamente per ammettere di avere già ricevuto numerosi curricula. Segno che pochi mesi di lavoro, part-time, a 700 euro lordi il mese, sono comunque visti come oro colato in una provincia dove le terrificanti statistiche sulla disoccupazioni non fanno quasi più notizia. I 400 selezionati inizieranno il loro percorso lavorativo a tempo a fine settembre, ma non tutti: per primi entreranno a lavoro in cinquanta, e poi via ad assunzioni scaglionate, fino a completare l'organico entro la fine dell'anno. Il call center della Comdata sarà un impegno in più per gli ispettori del ministero del Lavoro, che proprio da settembre daranno il via a controlli a tappeto in tutta Italia sul fenomeno call center. Le ispezioni dovranno verificare la regolarità dei contratti e dei rapporti di lavoro delle migliaia di addetti (10mila solo in Sardegna), e fissare un netto spartiacque fra dipendenti e collaboratori.Vincenzo Garofalo (Unioneonline)
POLITICA
Storie di ordinario precariato quotidiano
Le testimonianze degli ex co.co.co.24/8/2006

«Da dieci anni sono precaria a 900 euro» ROMA. L’ultimo anno in Atesia per M. e colleghi, è stato «catastrofico». Si guadagna sempre meno, nella speranza che presto arrivi un contratto «decente», a tempo indeterminato. M. ha 36 anni, maturità classica, è tra i più anziani. Entrata in azienda nel ‘96 lavora al 119, il servizio assistenza clienti Tim. «All’inizio mi hanno fatto aprire una partita Iva, poi me l’hanno fatta chiudere. Meglio così, almeno pagano i contributi». Un contratto rinnovato prima mese per mese, ora ogni tre. M. è pagata a contatto: «dipende da quante telefonate prendi. Se lavori tutto il turno, sei ore, per sei giorni alla settimana riesci ad arrivare a 1000-1200 euro. Io guadagno tra i 700 e i 900 euro, faccio il turno dalle 10 alle 16». A M. il lavoro piace: l’«elasticità degli orari» le permette di rimpinguare il suo stipendio. «Per un periodo mi guadagnavo qualcos’altro facendo la fotografa». Ma è stanca di non potersi prendere una vacanza o assentarsi per malattia. «L’azienda non ti paga le ferie, se ti becchi un raffreddore e resti a casa 4, 5 giorni sono soldi persi, molte donne vengono a lavorare col pancione perché non ti pagano neppure la maternità». E poi nell’ultimo anno, dice M., soprattutto con l’arrivo del nuovo capo, le cose sono peggiorate. «È capitato che per un paio di mesi non ti facevano arrivare le telefonate, lavoravamo le stesse ore ma prendevamo la metà. Prima se il flusso di contatti era alto, l’azienda alzava il prezzo, adesso zero: anzi, prima per noi un contatto rappresentava un guadagno di un euro, adesso sono 80 centesimi. Assieme al contratto arriva un tariffario: se non ti sta bene, ti mandano via. È come se ti licenziassero». A volte lo stipendio di M. non corrisponde ai calcoli, «capita che non ti diano tutto quello che devono». M. spera in un contratto a tempo indeterminato. «L’accordo che volevano fare con i sindacati era ridicolo: contratti a tempo indeterminato con turnazione, 600 euro al mese, che non ti davano la possibilità di fare altro lavoro. Avrebbero riguardato i lavoratori più vecchi come me». Le cose non cambieranno fino a gennaio, è la voce che circola in azienda, dice M. che parla anche di un «clima di terrore. Agli ultimi scioperi eravamo sempre meno, anche perché ad alcuni precari sindacalizzati non hanno rinnovato il contratto. Se ti fai notare rischi il posto». La signora G. 700 euro e figlio a caricoROMA. Lap. Dietro questa fredda sigla c'è la storia di G., 42 anni, da quasi quattro in Atesia, una donna che si sta separando e che con il suo stipendio deve mantenere un bambino di 5 anni e arrivare a fine mese. Lavoratore a progetto per il 119, il servizio assistenza clienti Tim, G. fa sempre lo stesso turno 9-15 per stare con il figlio e non affrontare l’ulteriore spesa di una babysitter. «Se ti va bene arrivi a 700 euro al mese, senza ferie, malattie e maternità pagate. Un disastro. Pago quella cifra solo di affitto, mio marito mi passa qualcosa ma mi restano 400-500 euro per vivere e pagare le bollette». Un altro problema è l’assistenza sociale. «Non ci sono strutture per i bambini, d’estate devi iscriverlo a un centro estivo, l’assistenza te ne paga 10 ore e nient’altro. Ma poi ti si appiccica, vivi nel terrore che ti tolgano tuo figlio dopo esserti piombati in casa a fine mese e aver visto che hai il frigo vuoto». Poi, al lavoro, c’è l’obbligo dei «briefing», i corsi di formazione. «Ti pagano 9 euro lordi al giorno, e perdi il guadagno di quella giornata. Si fanno quando decidono che devi cambiare attività. Ma sono due mesi di apprendistato sprecati, per imparare un nuovo lavoro che nessuno garantisce ti terrai. C’è gente che è stata buttata fuori dopo due mesi. Atesia è una macchina stritolapersone, non sai mai chi ti ha fatto cosa, se ti buttano fuori nessuno sa niente». G. vorrebbe restare nell’azienda a tempo indeterminato ma non alle condizioni che poneva l’accordo tra Atesia e sindacati, poi bloccato. «Dicevano che ci avrebbero assunti a fine settembre. Era un contratto part time, a turnazione. Avrei dovuto cercarmi una babysitter per non lasciare mio figlio da solo. Meglio la situazione attuale. Mi sono ammazzata di lavoro ora che mio figlio è con suo padre per qualche giorno, sono arrivata anche a 10 ore al giorno, così quando torna posso stare con lui. Con quel nuovo tipo di contratto la mia vita sarebbe stata scombussolata. Su 400 persone forse solo la metà ce l’avrebbe fatta ad affrontare un cambiamento del genere. Ma G. è ottimista. «Quello che sta accadendo può rivelarsi un bene anche se sono anni che ci prendono in giro con le assunzioni. Se volete darci i turni dateci il full time». Le alternative per G. sono pochissime. «Dove vado a 42 anni? Se perdo il lavoro chi mi prende?».
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Chi sono e quanto guadagnano i giovani senza posto fissoUn esercito di 250mila atipici, tutti "schiavi elettronici della new economy"
Call center, il girone dei nuovi CipputiAl telefono per sette euro l'ora
di BARBARA ARDÙROMA - La fabbrica creava alienati. Quegli uomini alla Charlie Chaplin di Tempi moderni che continuavano a stringere un bullone anche quando era suonata la sirena dell'uscita. Il call center partorisce invece uomini e donne stressati. Ritmi di lavoro e perenne incertezza sul futuro sono i suoi ingredienti. Che messi insieme o mal miscelati possono diventare esplosivi. Per andare in bagno bisogna attendere che scatti il semaforo verde. Tra una telefonata e l'altra non c'è riposo, neanche un minuto. E ogni volta che si prende in mano la cornetta c'è un contatore che avverte quando è ora di chiudere la comunicazione. Un controllore "anonimo", ma infallibile, che forse fa rimpiangere il vecchio ufficio tempi e metodi di tayloriana memoria che misurava, cronometro alla mano, l'efficienza di Cipputi alla catena di montaggio. I nuovi Cipputi sono loro, gli operatori di call center, 250mila persone in tutta Italia (80mila occupati con contratto a progetto secondo Assocontact, l'associazione di categoria). Molti lavorano al Sud, perché è lì che le aziende, in tutto 700, trovano conveniente installare i call center. Rispondono al telefono in media per cinque ore al giorno, secondo un'indagine di Rifondazione comunista. Guadagnano tra i 5 e i 7 euro l'ora. All'azienda ne costano 9-10 euro se la lavorano a progetto, 16 se hanno un contratto a tempo indeterminato. Sono per lo più giovani, venti, trent'anni, ma anche quaranta e quasi tutti hanno un titolo di scuola media superiore, qualcuno ha in tasca anche la laurea. Sono assillati, secondo l'indagine di Rifondazione, da mobbing, ripetitività delle mansioni, mancanza di prospettive e condizioni ambientali di lavoro. Subiscono pressioni di ogni genere. Dalle ferie negate, al consiglio di non ammalarsi, perché rischiano di non essere riconfermati, alle chiamate per Pasqua, Natale, i mesi estivi.
Fanno tutti la stessa cosa, parlano al telefono. Ma c'è una sottile distinzione. Ci sono gli inbound, cioè coloro che rispondono alle domande delle persone che telefonano e gli otbound, quelli che invece alzano la cornetta per chiamare persone cui sottoporre domande per indagini di mercato. I primi, secondo l'ultima circolare del ministero del Lavoro, possono aspirare a un contratto a tempo indeterminato. Gli altri, invece, potrebbero essere inquadrati anche come lavoratori a "progetto". Una distinzione che fa una certa differenza. Di sicuro sono tutti scontenti. Francesco, il nome è di fantasia, è impiegato da dieci anni alla Atesia, l'azienda obbligata dagli ispettori del lavoro di Roma, ad assumere a tempo indeterminato 3200 lavoratori attualmente a progetto. Ha 40 anni, è sposato e lavorando per 5 ore al giorno guadagna intorno ai 600 euro al mese. Viene pagato in base al numero di telefonate fatte. Talmente tante che alla fine la concentrazione sparisce. "Dopo aver risposto a 120 chiamate in quattro ore spesso esco dall'ufficio salgo in macchina e ho delle difficoltà a guidare", ha raccontato Margherita alla Cgil che ha intervistato dodici lavoratori dei call center di Genova. Tutti "schiavi elettronici della new economy", come li definisce Claudio Cugusi, nel suo libro Call center, indagine impietosa su una categoria con contratti di lavoro dove a un certo punto compare un comma che recita: "gravidanza, malattia e infortunio sono causa di sospensione del rapporto di lavoro". (25 agosto 2006)

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All'Atesia di Roma diktat dell'Ispettorato: "3200 tempi indeterminati"Il ministro del lavoro Damiano prudente: esaminerò il rapporto
"Assumete quei tremila precari"La sinistra si divide sul call center
di LUCA IEZZI
"Assumete quei tremila precari"La sinistra si divide sul call center ' src="http://www.repubblica.it/2006/08/sezioni/politica/assunzioni-call/assunzioni-call/stor_8736256_33550.jpg" width=200>
La sede di AtesiaROMA - Crea imbarazzo nel governo e nella maggioranza il caso Atesia, una delle principali società italiane di call center, alla quale l'Ispettorato del lavoro ha imposto di assumere con contratto a tempo indeterminato 3200 lavoratori attualmente "a progetto". Prudente il commento del ministro del Lavoro Cesare Damiano: "Mi riservo di esaminare i documenti su Atesia, ma per ciò che concerne i call center in generale, 250 mila persone occupate in 700 aziende, l'obiettivo è di regolarizzare tutto il settore". Lo stesso Damiano ha fatto notare che le ispezioni su Atesia precedono la circolare del ministero di metà giugno in cui si elencavano le direttive per giudicare quali mansioni dovessero essere affidate a lavoratori dipendenti e quali potessero usufruire di rapporti più flessibili. Sulla scia del caso-Atesia, nel centrosinistra tornano ad affiorare filosofie contrapposte sull'utilizzo del lavoro flessibile e sui contratti atipici. Una vicenda che fa da test al braccio di ferro "sotterraneo" su come rivedere, o cancellare, la legge Biagi. Per il presidente della commissione Attività produttive Daniele Capezzone "l'Ispettorato del lavoro di Roma ha agito, nei confronti di Atesia, in modo ideologico ed estremista, scavalcando le stesse indicazioni del ministro Damiano". Anche Atesia e le aziende del settore contestano la decisione: il presidente dell'associazione di categoria Assocontact (Fita-Confindustria), Umberto Costamagna, avverte: "Se la decisione fosse estesa si minerebbe l'intero settore, mettendo in ginocchio le aziende e obbligandole a fare a meno di 50-60 mila collaboratori e mettendo a rischio altri 20-30 mila addetti assunti a tempo indeterminato".
Su questa linea l'ex ministro del Lavoro Tiziano Treu, esponente della Margherita: "L'iniziativa di Damiano era diretta a chiarire la posizione dei lavoratori dei call center. L'ispettorato sembra intervenire in modo indifferenziato". Tesi contestata dal sottosegretario al Lavoro Rosa Rinaldi, di Rifondazione comunista: "L'azione ispettiva è stata avviata ben prima dell'insediamento di questo governo, ancor prima dell'emanazione della circolare del ministro che non ha certo efficacia retroattiva, ne può in alcun modo interferire sull'autonomia e legittimità dell'azione ispettiva". Il segretario della Cisl Raffaele Bonanni chiede un tavolo con aziende, governo e sindacati: "Fino a due anni fa i lavoratori dei call center erano in larga parte "co. co. co". Abbiamo fatto un accordo difficile e oggi la stragrande maggioranza dei lavoratori del settore è in regime di lavoro dipendente. Se serve un ulteriore accordo tra sindacati e imprese siamo pronti a farlo ma non devono essere gli ispettori a decidere". C'è anche chi applaude alla decisione. Giorgio Cremaschi, membro della segreteria della Fiom, dice che "è necessario che il governo assuma ed estenda queste interpretazioni in tutto il settore dei call center". E il segretario confederale dell'Ugl, Nazareno Mollicone: "È poco credibile che i più di tremila lavoratori abbiano ciascuno un progetto da svolgere e non siano, piuttosto, dei dipendenti legati alla nuova catena di montaggio costituita oggi dai call center". La posta in palio dunque è alta. Tutti i sindacati confederali, contestati in questo dai "duri" dei Cobas, temono che l'intervento degli ispettori possa penalizzare un'opera di progressiva regolarizzazione dei lavoratori nel settore frutto del dialogo con gli imprenditori. In particolare nel gruppo Cos-Almaviva di cui fa parte Atesia (che lavora per Tim e Wind), ma anche altre società che l'imprenditore Alberto Tripi ha creato con i propri clienti (Alicos con Alitalia e InAction con Fiat), potrebbero saltare tremila nuove assunzioni stabili, che andrebbero a raddoppiare il numero dei lavoratori a tempo indeterminato sugli oltre 13 mila complessivi. Dal punto di vista politico, poi, può rivelarsi un'arma a doppio taglio il fatto che l'interlocutore imprenditoriale, Alberto Tripi, è un sostenitore dell'Ulivo della prima ora, vicino alla Margherita ed in particolare al vicepremier Francesco Rutelli. In oltre vent'anni di attività, Tripi ha aggiunto al primo amore dell'informatica l'attività dei call center. Nel 2005 ha fatto il salto di qualità acquistando da Telecom la società di software Finsiel cambiando il nome in Almaviva. In entrambi i settori, oltre a servire le principali aziende private, si è aggiudicato commesse con ministeri e società pubbliche come i Monopoli di Stato. Un particolare che rende ancor più delicata ogni decisione sul tema. (24 agosto 2006)

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lunedì, agosto 28, 2006

Perugia: due ex studenti scrivono e realizzano una pellicolasu chi, come loro, deve affrontare l'incubo del "dopo"
Appena laureati e già precari"Un film su noi ragazzi del limbo""Il primo sole" è una commedia ricca di storie ispirate alla realtà"Altro che generazione da mille euro al mese, magari ce l'avessimo..."di CLAUDIA MORGOGLIONE
Appena laureati e già precari"Un film su noi ragazzi del limbo"' src="http://www.repubblica.it/2006/04/sezioni/scuola_e_universita/servizi/film-ragazzi-precari/film-ragazzi-precari/este_28162259_24120.jpg" width=200> Sul set del film ROMA - E' "una terra di nessuno" che i ragazzi tra i venti e i trent'anni conoscono bene: quel senso di vuoto che prende subito dopo la laurea, quell'ansia perenne per il futuro, quella continua caccia a lavoretti precari in attesa di una (fantomatica) grande occasione. "Spesso si parla di generazione da mille euro al mese - racconta il venticinquenne Giacomo Maria Pilia, da luglio dottore in Scienza delle comunicazioni a Perugia - ma nessuno si occupa della fase precedente, il limbo in cui siamo noi che abbiamo appena finito gli studi: perché nella nostra situazione magari averceli, i mille euro al mese...". Uno sfogo tra i tanti, quello di Giacomo? No, lui non si è limitato alle generiche lamentazioni: fresco di laurea, ossessionato da "tristi serate insieme agli amici, tutti preoccupatissimi", ha deciso - insieme alla collega Carmen Nardi - di metterle nero su bianco, queste storie di ordinario precariato. Di farle diventare una sceneggiatura, che poi - attraverso il coinvolgimento di un loro docente, il regista Carlo Bolli - si è trasformata in un film vero e proprio: si chiama Il primo sole, dura 85 minuti, è attualmente in fase di montaggio. In attesa di trovare un distributore per le sale: già alcune società sono interessate al prodotto, e i realizzatori confidano che un accordo, con una di loro, prima o poi si troverà.
Girata in tre settimane, diretta da Carlo Bolli, interpretata sia da attori delle scuole di teatro sia da non professionisti che hanno passato i provini, la pellicola utilizza - come pretesto per raccontare le storie dei ragazzi del limbo - una festa di Capodanno: un'occasione che consente ai vari personaggi di illustrare le proprie esperienze. Con toni da commedia, per non appesantire la situazione. "Non abbiamo fatto altro che fotografare quella 'terra di nessuno' - spiega Carmen - raccontandola attraverso insicurezze e volontà di realizzare le proprie aspirazioni". E di storie, dal materiale raccolto dai due ideatori del progetto, ne emergono tante. Giacomo ce ne racconta alcune in anteprima: "C'è un classico, la ragazza che è andata all'estero per trovare un po' di fortuna, con una borsa di ricerca; c'è quello talmente rassegnato a non trovare nulla che invece di pensare a se stesso osserva solo le disgrazie altrui; c'è il ragazzo che fa il parcheggiatore a Perugia, per raccogliere i soldi che gli servono per andare in Israele a studiare col suo docente". E poi naturalmente c'è la madre di tutte le difficoltà e di tutte le frustrazioni, "l'inevitabile esperienza nel call center". Queste alcune delle situazioni tipo. Ma lo scopo del film, spiega ancora Giacomo, non è tanto quello di fare un campionario, "quanto il mostrare la situazione emotiva di chi fa parte di questo limbo. Di come il problema del 'cosa farò dopo' si ripercuota sulle nostre psicologie". Insomma, il ritratto di una generazione sospesa tra due mondi: senza la spensieratezza della vita da studente, e senza nemmeno quel po' di sicurezza - per quanto precaria e sottopagata - di chi comunque una sua strada l'ha già imboccata. "Il cinema finora si è occupato o del prima, dell'università, o del dopo: il limbo non l'ha mai raccontato nessuno. Così abbiamo deciso di farlo noi". Un'avventura durata alcuni mesi, che ha coinvolto in prima persona, insieme a Giacomo e Carmen, una trentina di ragazzi. Un'esperienza entusiasmante, per loro: prima il professor Bolli che li aiuta a scrivere la scneggiatura e che accetta di dirigerla, poi il coinvolgimento di una società di produzione, la HD, che ha finanziato per metà il progetto (rigorosamente low budget); poi ancora l'arrivo di una serie di sponsor che hanno contribuito ai costi, in cambio del cosiddetto product placement (l'apparire dei loro marchi nel film). E infine, la parte più divertente: l'esperienza sul set. Certo, per giudicare il prodotto finale, bisognerà aspettare la (probabile) uscita nelle sale. Ma intanto, quei trenta ragazzi, un passo per uscire fuori dalla terra di nessuno l'hanno già fatto, realizzando il film. Anche se Giacomo, forse con un po' di scaramanzia, lo nega: "Io nel limbo ci sono ancora, eccome...". (28 aprile 2006)

venerdì, agosto 25, 2006

Atesia: un caso, non ancora la regoladi Paola Zanca La guerra dei call center sembra essere solo alla prima battaglia. Dopo il verdetto dell’ispettorato del lavoro che imporrebbe ad Atesia l’assunzione di tremila dipendenti e il pagamento dei contributi per altri diecimila, quella che era stata salutata come un inizio di vittoria per le migliaia di lavoratori occupati nel più grande centralino d’Italia, sta ora diventando una vicenda molto più che simbolica. E scatena la querelle tra chi ritiene preferibile una soluzione di compromesso, a cui giungere con tavoli di confronto, trattative e con un forte ruolo del sindacato, e chi invece ha piena fiducia nelle decisioni dell’Ispettorato e non vuole cedere al ricatto imposto dai vertici dell’azienda. Sì, perchè la risposta arrivata per voce di Alberto Tripi, presidente del gruppo Almaviva-Cos, cui fa capo Atesia, com’era prevedibile, è stata netta: l’ipotesi assunzione apre la strada al licenziamento e alla delocalizzazione, soprattutto se il verdetto dell’ispezione dovesse ricadere solo sul call center di Cinecittà, provocando una distorsione del mercato che vedrebbe comunque continuare tutti gli altri outsourcer - le società che gestiscono i call center per le grandi aziende e che effettuano ricerche di mercato - sulla via della precarietà.Il primo effetto dell’ispezione, dunque, lungi dall’essere l’assunzione, su cui ora dovrà pronunciarsi il Tribunale del Lavoro, è la sospensione degli accordi sindacali che l’azienda aveva stipulato tempo fa e che prevedevano, almeno a quanto dichiarato dallo stesso Tripi, l'assunzione a tempo indeterminato di 3 mila collaboratori entro la fine del 2006. Un ricatto occupazionale a tutti gli effetti, denunciano sindacati e lavoratori, che fa ricadere tutto il rischio d’impresa sui lavoratori.Il Nidil, l’organismo della Cgil che tutela gli atipici, condanna da tempo il comportamento scorretto del gruppo Almaviva-Cos, ed in particolare il dumping che Atesia da anni perpetra a danno delle «aziende serie»: tre anni fa un accordo stipulato dai sindacati con AssoCallcenter, organismo della Confcommercio, aveva portato all’assunzione di 4 mila lavoratori precari ed altre garanzie per chi era rimasto lavoratore parasubordinato. Aziende serie, che però sono state letteralmente messe fuori mercato, sconfitte ad ogni gara d’appalto perchè non competitive rispetto a colossi come Almaviva-Cos, che è sempre riuscita a proporre prezzi più bassi. La ragione, manco a dirlo, è tutta lì, sulle spalle dei lavoratori a cottimo, perennemente in attesa del "contatto utile". Insomma, sintetizza in rima Davide Imola del Nidil: «Più abusi fai, più commesse hai».Per questo il Nidil-Cgil ora chiede l’apertura urgente di un tavolo trilaterale, a cui partecipino sindacati, aziende e governo. La proposta è essenzialmente una: ridurre il cuneo fiscale, abbassare il costo del lavoro e dare così alle aziende un incentivo ad assumere. Perchè il problema, si sa, è tutto lì: «Il costo aziendale per l'impiego orario di un addetto in outbound – spiega Marco Durante, consigliere di AssoContact, l’associazione nazionale dei contact center – è di circa 10,50 euro per il personale co.co.pro, a fronte di una somma oraria di 15-17 euro per un operatore dipendente».Restano comunque da ricordare gli utili da capogiro che Atesia pubblicizza, i 300 mila contatti quotidiani che riceve, nonchè il suo probabile prossimo ingresso a Piazza Affari.Un vero e proprio intervento sistemico è quello che chiedono i sindacati al governo: la materia è troppo vasta e a rischio trappole per potersi permettere di procedere a piccoli passi, serve subito una riorganizzazione complessiva dell’intero settore. Una strategia che permetta alle aziende di restare sul mercato senza cancellare quelle garanzie a cui ogni lavoratore ha diritto, dalla tutela della maternità all’assicurazione sugli infortuni, dalla possibilità di avere accesso al credito al poter sperare ad una pensione in un domani. «I diritti sociali – ammonisce la Nidil – non possono diventare la discriminante tra due lavoratori che svolgono le stesse mansioni e hanno solo forme di contratto diverse».
Manovra, i sindacati: «No al blocco dei contratti pubblici» Tagli alla sanità, rinnovi dei contratti congelati, assunzioni bloccate, pensionamenti rinviati e gli sgravi del cuneo fiscale che rischiano nuove sperequazioni in busta paga. I sindacati cominciano a avere i nervi scoperti prima ancora della presentazione della manovra sui conti. Le indiscrezioni non promettono niente di buono. Anche oggi il viceministro all’economia Roberto Pinza ha parlato della necessità di un «dimagrimento nel pubblico impiego» e di tagli alla sanità. Domenica il sottosegretario all’economia Mario è tornato a parlare di interventi sulle pensioni in una intervista sul Sole24ore, anche se solo per graduare il cosiddetto “scalone”. I sindacati si mettono sul “chi-vive” perchè temono una riduzione del coefficiente di calcolo per l’età e i contributi. Ma a agitarli è soprattutto il ventilato blocco dei contratti dei dipendenti pubblici. Sulla questione è oggi anche il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani a mettere uno stop, dopo che già il segretario della Cisl Raffaele Bonanni ha definito l’ipotesi «una follia». Per Bonanni sarebbe casomai da affrontare nel pubblico impiego, la sistemazione «di quei 300mila precari il cui futuro è nebuloso».Intervistato lunedì da Radio 24 il leader della Cisl dice che nel pubblico impiego c'è un'irritazione molto forte perché i lavoratori hanno già subito storie di slittamenti ingiustificati dei loro contratti. E poi «non c'è giorno in cui non si annuncino tagli nel pubblico impiego. Noi non ci stiamo – avverte - prima si arriva a una discussione e meglio è».Ma anche per la più paziente Cgil, i tagli devono essere selettivi, «non si possono bloccare i contratti pubblici e, sulla previdenza non si può far cassa come abbiamo sempre detto con qualsiasi governo». È la posizione del segretario nazionale Guglielmo Epifani. «È ragionevole e giusto che il governo voglia sistemare i conti pubblici -ha spiegato Epifani- conti che sono sfasciati perché il governo passato lascia una eredità pesante, però non si può intervenire prevalentemente con i tagli» e soprattutto ha spiegato il leader sindacale, questi tagli non devono incidere su lavoratori e pensionati. «Bisogna intervenire per lo sviluppo con una doverosa politica delle entrate che faccia pagare di più le rendite delle grandi ricchezze».Epifani ha ricordato l'impegno di un incontro tra governo e sindacati nei prossimi giorni in cui si discuterà anche del Documento di programmazione economica e della legge finanziaria. «La situazione, lo sappiamo, è pesante, il sindacato non si è mai tirato indietro però bisogna anche comprendere che quella parte del paese che in questi anni è andata indietro, non può essere chiamata a pagare. Bisogna che paghi la parte del Paese che in questi anni si è arricchita».Il leader della Uil Luigi Angeletti è il più barricadero. Già la settimana scorsa a La Stampa aveva ipotizzato uno sciopero contro il governo di centrosinistra in caso la manovra sul cuneo fiscale non accompagnasse quella sul riassesto dei conti. «Lo sciopero? Mica è stato abolito», era stata la sua notazione. E anche Bonanni avverte che tendenzialmente la Cisl si tiene con «le mani libere» di fronte agli annunci del governo. Anche perché, a suo giudizio, l’avvio della concertazione a Plazzo Chigi è stato molto deludente. E anche all’interno della maggioranza ci sono dei malumori. Rifondazione vorrebbe «spalmare in due anni e mezzo e in tre stadi», manovrina e Finanziarie 2007 e 2008, le misure per rientrare dal deficit, ma a partire con l'indicazione immediata nella manovrina di una prevalenza del lato delle entrate (con la lotta all'evasione fiscale) rispetto a quello dei tagli.«L'obiezione che ci viene fatta - spiega il ministro Ferrero - è che in Finanziaria non sono quantificabili i proventi della lotta all'evasione fiscale. Per questo chiediamo che si cominci subito a indicarne la necessità, perché prima si comincia e più la lotta sarà efficace». Sul fronte delle entrate Rifondazione propone poi misure di riequilibrio della tassazione a carico delle grandi rendite finanziarie e immobiliari, la non entrata in vigore del secondo modulo della riforma fiscale di Tremonti e una reintroduzione della tassa di successione per i grandi patrimoni. Da parte della Confindustria anche lunedì Luca Cordero di Montezemolo ricorda che la manovra è ineluttabile. E il governo avverte che si tratterà di una manovra «consistente», anche se cifre ufficiali ancora non se ne fanno. «Nei limiti del possibile –precisato alla radio il viceministro Roberto Pinza- ci saranno interventi per rilanciare l'economia». E assicura che il confronto con i sindacati si farà «più stringente». Quanto all'andamento della spesa sanitaria Pinza infine ha sottolineato che sono in atto colloqui su questo tema con le Regioni. In particolare giovedì è prevista una conferenza unificata «per vedere cosa si può fare».

giovedì, agosto 24, 2006

Posted by Picasa Da qualche mese Ugo è rientratto a Roma, è il responsabile degli Enti Locali, con lui da subito abbiamo affrontato la piaga del precariato negli Enti Locali, alcune di quelle vertenze sono andatte a buon fine altre le stiamo ancora governando.

Qui di seguito ci tengo a diffondere la sua relazione al congresso della Funzione Pubblica.

Relazione di Ugo Gallo(segretario generale Funzione Pubblica CGIL Cagliari)

Care compagne e cari compagni,
tre anni fa, ero stato eletto da pochi giorni, fui informato che le lavoratrici ed i lavoratori precari del Centro Antinsetti della provincia di Cagliari, stavano per occupare il Consiglio Provinciale sospendendo l’assemblea in corso.
Immediatamente, con Luca, andammo alla provincia, il motivo della volontà di occupazione era l’imminente scadenza dei contratti, alcuni tempi determinati, altri avevano collaborazioni, ma tutti sarebbero scaduti di li a pochi giorni.
In delegazione andammo subito dal Presidente della Provincia, allora c’era Balletto, per chiedergli il rinnovo dei contratti in scadenza, ottenemmo un appuntamento da li a due giorni per approfondire il problema con una disponibilità di massima alla proroga.
I lavoratori ci attendevano sul portone e noi andammo a dirgli qual era l’impegno assunto dal Presidente, abbastanza soddisfatti e con la proposta di rivederci tutti il giorno dell’incontro. Uno di loro mi disse: tu sai cosa dare da mangiare a tuo figlio, io no, non ho più la certezza del lavoro.
Me lo disse in sardo, e seppure ero arrivato da pochi giorni capii benissimo cosa intendeva dire, anzi in sardo rendeva il pensiero chiarissimo, come un plastico figurato.
Lo disse con una spontaneità che mi colpì moltissimo, salimmo tutti nella sala ed occupammo il Consiglio fino a che ottenemmo la proroga dei contratti in scadenza.
Ma i loro contratti scadevano ogni tre mesi e dopo due o tre occupazioni, anche per pigrizia o stanchezza, in un assemblea gli dissi che non potevamo continuare così che dovevamo mirare più in alto, ad una soluzione definitiva e cioè la loro stabilizzazione.
Le condizioni lo rendevano possibile perché i finanziamenti arrivavano annualmente dalla regione, quindi bastava stabilizzare la spesa. Iniziammo con un accordo con la Provincia, un accordo che prevedeva l’assunzione nel caso in cui fosse stata approvata una norma che rendesse certi i trasferimenti, le parti si impegnavano, inoltre, ognuno per le proprie competenze, a promuovere l’azione legislativa.
Nel frattempo si prorogavano i contratti, nelle forme che di volta in volta trovavamo più conveniente in funzione del fine ultimo: la stabilizzazione dei trenta lavoratori.
Quando si avviò la discussione della finanziaria regionale, i lavoratori, con il sostegno della funzione pubblica CGIL, con il nostro sostegno, occuparono l’assessorato regionale al personale. Immaginate una tenda montata nel balcone dell’assessore, ed un piano, il terzo, quello dell’ufficio dell’assessore, sostanzialmente requisito, con striscioni nei corridoi, bandiere, zaini, sacchi a pelo, borse per pernottare, insomma un occupazione vera.
Devo dire, per onestà, che l’assessore Dadea ha reagito con intelligenza, non ha chiamato i carabinieri, poteva farlo, ed ha ascoltato le nostre ragioni, che erano semplicissime ed a costo zero per la regione: un emendamento alla finanziaria che rendeva certi e stabili i trasferimenti annuali per le competenze relative alla lotta agli insetti ed alla blue tongue.
L’assessore Dadea, insieme a quello dell’ambiente Dessì, si sono impegnati a presentare l’emendamento in finanziaria, che, dopo sei giorni di occupazione è stato votato all’unanimità, sotto lo sguardo vigile delle lavoratrici e dei lavoratori i quali, nella fase di discussione, si erano spostati nell’aula del consiglio regionale.
In questi giorni dovrebbe essere pubblicato, l’accordo prevede entro il 31 gennaio 2006, il bando con il quale la provincia di Cagliari assumerà, nei propri organici, i lavoratori ormai ex precari del centro antinsetti.
Ho voluto raccontare quest’episodio non solo perché, naturalmente mi ha introdotto nella vita e nelle dinamiche della città e delle persone e mi ha accompagnato per tutta la durata del mandato, ma soprattutto perché penso che gli esempi, i momenti di vita vissuti, le esperienze che facciamo, traducono e rendono comprensibili le cose che diciamo, che affermiamo, le nostre elaborazioni.
In questi anni la CGIL ha rappresentato una speranza per molti, la speranza è tale se oltre ad opporsi, come abbiamo fatto in questi anni, ad un modello di società liberista si sviluppano pratiche e comportamenti in grado di dimostrare che un altro modello di governo è possibile.
Voglio qui ricordare le iniziative ed i momenti di riflessione che abbiamo costruito che sono stati alla base, sono state le coordinate, il perimetro entro il quale abbiamo sviluppato i comportamenti: la tavola rotonda per un’europa migliore a dieci anni dalla presentazione del libro bianco Delors, dove ponemmo l’importanza dei servizi pubblici locali, e l’iniziativa nella quale presentammo la nostra idea di sanità a Cagliari.
Nelle due iniziative denunciammo l’azione devastatrice con la quale l’economia assumeva il primato rispetto alla politica.
Azione devastatrice la cui origine deriva da un idea mercantilistica di società che a partire dagli anni 80 si è propagata nei pensieri e nei progetti di economisti, intellettuali, politici e, probabilmente, anche in settori del sindacato.
Nel 1995 Ignazio Ramonet coniò la suggestiva espressione del pensiero unico, a indicare quel processo di affermazione del primato dell’economia sulla politica che un intellettuale di orientamento opposto, Alain Minc, aveva descritto così: …. Il capitalismo non può crollare, è lo stato naturale della società. La democrazia non è lo stato naturale della società. Il mercato lo è.
Di entrambe queste contrapposte ma espressive descrizioni dell’affermarsi, nei primi anni 90, del neo liberismo, è utile, ancora oggi, coglierne il senso.
La globalizzazione nasce come pura, grande operazione mercantile, determinato dal primato dell’economia sulla politica. Lo spazio pubblico affermatosi negli stati nazione, come ad esempio i vari assetti di welfare, e gli organismi di diritto internazionale come l’ONU, gli spazi cioè del primato della politica, delle regole compensatrici delle mere logiche di mercato e della competizione senza limiti vengono progressivamente assediati ed invasi.
Riemerge la primitiva ideologia del mercato che si fa globale grazie alla rivoluzione informatica, puntando a sostituire e superare i vecchi apparati politico – ideologici novecenteschi. La competizione globale di mercato comincia così a invadere anche le funzioni pubbliche.
La legge del più forte genera anche, con agghiacciante coerenza concettuale, la teoria globale della guerra preventiva. La guerra come il mercato sostituisce la politica e le regole del diritto internazionale si erge a unico principio regolatore dei conflitti.
Nel nostro specifico assetto costituzionale, il binomio democrazia lavoro, fondamento della costituzione repubblicana, viene sottoposto ad una torsione potenzialmente distruttiva, esattamente come quello politica mercato.
Analizzare più attentamente le origini, la struttura, gli attuali fattori di contraddizione e di crisi della rivoluzione neo liberista per delineare la necessaria radicalità di un alternativa praticabile è il compito che, localmente e globalmente, è ancora intero davanti a noi.
In questi anni la CGIL con i movimenti ha condiviso, altre al grande tema della pace, la difesa dello spazio pubblico, a partire dai servizi locali, superando senza reticenze l’ubriacatura ideologica degli anni 80 e affermando la centralità del pubblico, nelle sue diverse articolazioni, dallo stato alle regioni, ai comuni, nella gestione e nella erogazione dei servizi connessi al welfare.
Beni e servizi di interesse collettivo che hanno un peso decisivo nella vita delle persone e nelle relazioni sociali, da cui spesso dipende la qualità dell’esistenza e la vitalità democratica di un paese. Essi rappresentano anche una realtà economica imponente, impegnano più della metà dei bilanci pubblici; e, proprio per questo, sono al centro dell’attenzione e degli interessi delle imprese, interessate a estendere il dominio del mercato, in qualche caso, temo, drogato da lobby o gruppi affaristici massonici. Assistiamo insomma ad attacchi disgregativi di questi servizi e attraverso questi, al sistema europeo di welfare sia locale (acqua, gas, elettricità, trasporti ecc..) che nazionale (previdenza, sanità, istruzione, mercato del lavoro ecc…).
Qualche tempo fa l’ex presidente della confindustria D’amato ha affermato: lo stato deve uscire definitivamente dai servizi pubblici locali, aprendo il mercato, non si capisce perchè sia la mano pubblica a gestire questi settori, vorrei capire cosa c’è di strategico nella gestione dei servizi pubblici locali, acqua, trasporti, energia, raccolta dei rifiuti, lo stato deve uscire per sempre. D’amato si spinse a definire l’attuale sistema socialismo municipale.
Parlando di Confindustria vale la pena soffermarsi, seppure brevemente, sulla struttura e la tipologia del capitalismo, sarebbe incomprensibile per chi considera il lavoro, le lavoratrici ed i lavoratori, la loro riunificazione e rappresentanza come vincoli fondativi su cui definire e praticare una ipotesi di sviluppo alternativo, eludere i caratteri strutturali dell’inedita crisi che sta attraversando il sistema capitalistico mondiale, ma in particolar modo del nostro paese, analizzarne le ragioni, individuarne gli attori. (Per dirla con una battuta Marx ha scritto il capitale, un tomo di quattro libri, ed il manifesto del partito comunista un libricino di poche pagine).
Nel suo ultimo libro Luciano Gallino scrive: “Condizioni di lavoro, prezzi, trasporti e media, alimentazione, forme di risparmio e rischi connessi, organizzazione della famiglia, la possibilità stessa di progettarsi un’esistenza, piaccia o no dipendono tutte da decisioni che provengono, più che dal governo della nazione, dal governo delle imprese. Tuttavia queste ultime non paiono tener sempre conto delle conseguenze sulle nostre vite della loro attività. Da tempo si insiste, su scala internazionale, affinché le imprese agiscano in modo socialmente più responsabile su base volontaria. Ma teoria e pratica della responsabilità sociale dell’impresa diverranno comuni soltanto quando un’apposita riforma del governo dell’impresa le inserirà tra i suoi principi costitutivi”.
Questa teoria che condivido è possibile realizzarla solo se si inverte culturalmente sul chi decide che cosa, se la politica riassume il ruolo che le compete, se dopo l’ubriacatura ideologica del mercato si riscopre, come pure ci sono segnali evidenti, la teoria Keynesiana in economia rinvigorita nell’analisi di una scuola di pensiero tra i cui esponenti ricordiamo Stiglitz, premio nobel per l’economia nel 2001.
Invece, la caduta dei profitti verificatasi tra gli anni ’60 – ’80 del secolo scorso ha indotto le imprese, nel decennio successivo, ad elaborazioni di strategie industriali tendenti a subordinare alla creazione di valore borsistico ogni altro interesse, determinando una modificazione strutturale del capitalismo, da coloro i cui profitti erano determinati dalla trasformazione dei prodotti, il cosi detto capitalismo industriale, all’attuale capitalismo finanziario o azionario, un capitalismo ossessivamente orientato a cercare forme di rendita a breve termine privilegiando operazioni e architetture finanziarie piuttosto che realizzare utili con attività che generano valore aggiunto a lungo termine mediante la produzione di beni e servizi reali. Questa trasformazione è stata accompagnata e sostenuta dalle politiche fiscali, la speculazione in borsa, infatti, è tassata molto meno della produzione di beni e servizi.
La conseguenza di questa strategia è l’irresponsabilità sociale dell’impresa.
Si definisce irresponsabile un’impresa che al di là degli elementari obblighi di legge suppone di non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica, né all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività.
Tra queste vanno considerate: le strategie industriali e finanziarie; le condizioni di lavoro offerte ai lavoratori; le politiche dell’occupazione; il rapporto dei prodotti e dei processi produttivi con l’ambiente; la qualità dei prodotti; i rapporti con la comunità in cui opera; le localizzazioni e le delocalizzazioni delle attività produttive, il comportamento fiscale.
L’impresa irresponsabile, dunque, non ci pone semplicemente a una questione di persone, di singoli dirigenti o proprietari, piuttosto essa è l’esito di un modello strutturale, per vari aspetti scientificamente costruito di governo dell’impresa il cui scopo dominante è far salire il prezzo delle azioni, più precisamente il valore di mercato dell’impresa.
Quando non si produce ricchezza reale, quando l’ossessione della rendita a breve prevale, si entra in una spirale degenerativa che coinvolge contemporaneamente sia il sistema finanziario che quello industriale.
Vicende come quelle della parmalat, cirio, antonveneta, sono il segno della degenerazione della finanza; ed il predominio della finanza sull’economia reale ha distrutto l’innovazione del processo e del prodotto, la progettazione e la ricerca applicata ed ha partorito una generazione di imprenditori inadeguati, che hanno immolato sull’altare del profitto immediato anche marchi, tecnologie, brevetti che le multinazionali hanno spostato fuori dal paese.
Questo tipo di capitalismo, per alzare il livello dei profitti ha avuto bisogno dei seguenti mezzi: la riduzione del costo del lavoro, l’aumento dei prezzi più rapido rispetto alle retribuzioni, l’attacco al sindacato. La parola d’ordine strategica è diventata: la flessibilizzazione dell’uomo e della macchina.
In base al nuovo principio, l’impresa assume il meno possibile procede a licenziare al fine di creare valore, mira a fidelizzare soltanto un nucleo ristretto di personale, occupa un’elevata percentuale di lavoratori precari, preferisce impiegare le risorse disponibili per operazioni finanziarie piuttosto che per effettuare nuovi investimenti.
La filosofia della legge 30 è tutta qui, pensata e costruita per sostenere questa tipologia di impresa, ed in quanto tale è parte integrante del progetto della destra politica ed economica, anche per questo motivo non si capiscono le timidezze di alcune componenti del centro sinistra.
La richiesta di accrescere la flessibilità del lavoro viene giustificata dalla necessità di impiegare razionalmente la forza lavoro. Ad esempio, pare razionale che la direzione di una fabbrica di mobili chieda ai lavoratori di lavorare 48 ore la settimana quando le vendite aumentano, oppure 36 quando diminuiscono. Altrettanto razionale sembra la richiesta del gestore di un supermercato, rivolta a commesse e cassieri, di seguire un orario modulato sulle ore del giorno e sui giorni della settimana nei quali l’affluenza degli acquirenti è maggiore.
Per quanto fondate, queste sono solo le ragioni superficiali della domanda di flessibilità. Le ragioni profonde vanno ricercate nell’accelerazione della circolazione di capitale che contraddistingue il capitalismo azionario.
In presenza di tale accelerazione, la stabilità del capitale, più esattamente della sua redditività, esige la destabilizzazione del lavoro. L’insicurezza personale e sociale che questa genera è il prezzo che alla collettività si chiede di pagare.
E noi siamo lì, siamo rimasti i soli a presidiare, attraverso la contrattazione, un’area, uno spazio che altrimenti sarebbe determinato unicamente dal profitto delle imprese.
Imprese che scelgono gli investimenti finanziari invece che le tecnologie, la formazione, in una parola la qualità, e comprimono i diritti del lavoro e dei lavoratori.
La seconda colonna della realizzazione dell’idea liberista consiste nella demolizione delle funzioni e del lavoro pubblico, nell’attacco sistematico alle lavoratrici ed ai lavoratori pubblici o connessi al pubblico.
La demolizione tentata è stata per un verso strutturale:
- Riduzione dell’occupazione già attuata pari a 70.000 unità, mentre altrettante unità sono previste in meno per il prossimo anno;
- Aumento costante della precarizzazione che ha portato, secondo le stime contenute nel conto annuale del tesoro, i precari ad una cifra pari a 254.371 tra tempi determinati, contratti di formazione lavoro, LSU, interinali e co.co.co. Va sottolineato come a queste stime sfuggano i lavori dati stabilmente in appalto a cooperative di servizio o sociali e quelle svolte stabilmente da figure ancora più precarie come quelle degli stagisti. Tutto ciò è avvenuto peraltro senza che la Legge 30 fosse applicata nel settore pubblico, risultato questo ottenuto nel rinnovo dei nostri CCNL, grazie ad una straordinaria tenuta unitaria. Questa enorme quantità di precariato è il frutto, forse non sufficientemente previsto né voluto, del cosiddetto pacchetto Treu, le cui norme e la cui applicabilità andranno profondamente riconsiderate nella nuova normativa che dovrà essere fatta sul mercato del lavoro, alla luce dei risultati che si sono determinati;
- Rinnovo programmaticamente ritardato dei CCNL, che ha portato la stipula del quadriennio normativo con circa due anni di ritardo e che comporterà l’erogazione dei benefici del secondo biennio, quando già dovrebbe entrare in vigore il nuovo quadriennio: Per questa via non si sono solo privati 3,5 milioni di lavoratrici e lavoratori dei loro diritti, ma si è anche minata la credibilità stessa dell’istituto del CCNL;
- L’introduzione di uno spoil system, interpretato come strumento per asservire totalmente la struttura amministrativa e burocratica alla politica, ha provocato nei fatti la creazione di una catena gerarchica di comando che corre dal Ministro fino al vertice delle carriere del personale contrattualizzato, passando per tutti i livelli dirigenziali. Lo stesso è avvenuto negli enti pubblici, nelle regioni e nelle autonomie locali. In questi ultimi anni si è nei fatti contraddetta la scelta operata, fin dalla prima legge di contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico, di separare l’amministrazione, cioè la gestione, dalla politica;
- Riproposizione a più riprese del tentativo di decontrattualizzare i rapporti di lavoro attraverso interventi legislativi e lo spostamento di intere categorie dall’area della contrattazione alla legge, come è avvenuto per i vigili del fuoco e come si è tentato per i professori. D’altro canto la stessa L. 30 e i contratti dei meccanici non sottoscritti dalla FIOM rappresentano questa volontà, invertendo il tradizionale rapporto tra legge e contratti, laddove la legge è sempre stata di sostegno ed il contratto ha dettato le condizioni di miglior favore.
Per altro verso, invece, l’attacco portato al lavoro pubblico ha assunto le caratteristiche di una campagna culturale: dal disprezzo, non nuovo a partire dagli anni 80 per il lavoro, si è passati all’invettiva nei confronti dei lavoratori.
Come si può dimenticare la frase pronunciata da Washington dal Premier sui lavoratori pubblici pochi giorni prima della nostra ultima manifestazione? Secondo questa frase i lavoratori pubblici la mattina guardandosi allo specchio, mentre si preparano per andare al lavoro, dovrebbero vergognarsi.
E come ancora, se non in questo quadro, si può spiegare il grossolano tentativo di dividere i lavoratori pubblici da quelli privati nel corso della fase finale della vertenza per il rinnovo del contratto, quando si è accennato al fatto che i lavoratori pubblici pretendevano aumenti molto più alti di quelli che avrebbero avuto i loro “veri” padroni e cioè i lavoratori privati?
Ed ancora una volta, incomprensibilmente e sorprendentemente abbiamo osservato una generale sottovalutazione, anche del centro sinistra, di questo attacco al lavoro, delle sue radici e delle sue reali motivazioni, come se si trattasse di una questione settoriale e non generale per il Paese.
E’ invece evidente che un progetto di trasformazione per la società non possa prescindere dal lavoro pubblico. Il lavoro pubblico così come in parte è, ma soprattutto come noi dobbiamo riuscire a farlo diventare, ha in sé quattro grandi opportunità:
1. garantisce i diritti fondamentali delle persone;2. produce sviluppo;3. è pre condizione dell’insediamento economico produttivo e dello sviluppo;4. è frontiera e presidio della legalità.
Ma non basta dire pubblico è meglio, cioè restituire al pubblico la gestione e la responsabilità di erogazione di diritti che costituiscono beni sociali, beni comuni.
La salute, l’istruzione, l’accesso all’acqua, l’assistenza agli anziani, ai cittadini non auto sufficienti, i servizi materno-infantili, le protezioni civili, la prevenzione del rischio, la tutela e la funzione di un bene culturale, la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti sono altrettanti beni comuni solo se la loro natura pubblica garantisce diritto di accesso ad ogni cittadino.
Tornare indietro da pratiche affrettate di esternalizzazioni e privatizzazioni diffuse è il primo indispensabile passo anche per proteggersi da infiltrazioni di ogni tipo, lobbistica, mafiosa, o anche a carattere massonico.
Potrebbe non essere sufficiente. Bisogna che il lavoro pubblico si impegni ad una diversa pratica, a non rendere più possibile lo scambio, la confusione tra diritto e favore.
Noi, le pubbliche amministrazioni sono, per tanti, la vera ed unica faccia della stato che conoscono. La qualità del nostro lavoro fa la qualità della Stato per le persone, ciò che dello Stato pensano è determinato dall’immagine che da di se il lavoro pubblico.
Se il lavoro pubblico è trasparente ed efficiente la Stato è trasparente ed efficiente. La legalità, i diritti diventano un luogo fisico, un presidio che si può frequentare e che vale la pena difendere.
In quest’ultimo periodo si è sviluppata una nuova e per certi versi insperata attenzione nei confronti del pubblico, sembra cioè terminata la fase in cui il privato in quanto tale pareva destinato a soppiantare l’iniziativa del pubblico in ogni attività economica e sociale, senza nemmeno doversi prendere il disturbo di argomentarne le ragioni e le convenienze. Va consolidandosi invece, un’idea diversa di cui sicuramente il quadro attivo dell’organizzazione ne è consapevole, l’adesione pressoché totale agli emendamenti della categoria ne è una prova.
L’idea cioè di considerare il pubblico come un diritto di cittadinanza.
Un diritto è tale se vi è una sede in cui è possibile esigerlo, e solo le funzioni pubbliche possono candidarsi ad essere queste sedi. Certo, si deve continuare a garantire il buon andamento e l’equilibrio economico di ogni struttura, ma questo deve essere il prerequisito, non il fine dell’azione e del lavoro pubblico.
Stare bene, non essere curati solo quando si sta ormai male, accedere a un livello il più alto possibile d’istruzione, avere sistemi adeguati di protezione sociale, avere una pensione adeguata al termine del proprio lavoro: si tratta di fondamentali diritti di cittadinanza e le funzioni pubbliche sono chiamate a garantirli.
In questa luce va considerata anche la nostra battaglia contro la precarizzazione del lavoro nei nostri settori. Stabilizzare le decine di migliaia di lavoratori (quelli a tempo determinato, quelli con contratti di formazione lavoro senza fine, quelli socialmente utili o di pubblica utilità, quelli Co.Co.Co. o a progetto, quelli a partita iva) che prestano la loro opera per le pubbliche amministrazioni, non risponde solo a un esigenza di questi lavoratori di avere finalmente un posto stabile.
Si tratta, infatti, anche di dare stabilità alle funzioni pubbliche che, attraverso queste persone, si intendono garantite. Può la protezione civile avere geologi a tempo determinato? Può il ministero dell’ambiente avere tecnici a collaborazione? Può l’agenzia del territorio fondare il suo lavoro sui tempi determinati? Può la provincia di Cagliari avere tecnici disinfestatori a collaborazione per affrontare una epidemia gravissima ed in espansione come la blue tongue che colpisce gli animali e mette a rischio il lavoro e l’economia del settore agro alimentare?
Utilizzeremo tutte le sedi per affrontare questi problemi, ma davvero penso che, se si vogliono difendere i diritti, bisogna difendere le funzioni pubbliche.
Per farlo bisogna smetterla di esternalizzare funzioni e lavoratori, provando invece a internalizzare il lavoro quando questo è richiesto dal ciclo lavorativo. Alle lavoratrici. Ai lavoratori va detto che stabilizzare il lavoro precario è un modo per difendere il nostro lavoro, a tutti gli altri dobbiamo riuscire a spiegare che difendere e valorizzare il nostro lavoro vuol dire difendere i diritti di tutti.
Dobbiamo affermare il benessere o welfare che dir si voglia, come diritto a godere di quei beni comuni come la salute, la cultura, l’istruzione l’acqua, l’ambiente che non possono essere acquistati, ma ai quali il cittadino in quanto tale deve poter accedere.
L’accesso a questi beni può essere assicurato solo dal soggetto pubblico che ne deve garantire, anche attraverso le modalità organizzative, caratteristiche universali.
Ecco perché questi diritti possono essere garantiti solo dal lavoro pubblico. E’ chiaro però che si pone, a questo punto, una duplice questione: la prima, non tutto ciò che oggi è pubblico può essere definito bene comune e non tutto ciò che è bene comune è oggi pubblico; la seconda ci riguarda in prima persona, è che oggi le caratteristiche, i contenuti, le modalità organizzative del lavoro pubblico, a volte, anziché garantire, ostacolano l’accesso a quel diritto del cittadino.
Ne conseguono due scelte da compiere, la prima è la ridefinizione di una mappa, un catalogo dei beni comuni, la seconda è la presa in carico reale da parte nostra del tema dell’organizzazione del lavoro e dei servizi.
La prima scelta riguarda soprattutto la politica ed il centro sinistra è atteso su questo tema ad una delle prove più significative riguardo alla sua concreta volontà di mettere in atto un reale processo di trasformazione della società. Ma la seconda è affare nostro.
Dobbiamo costruire pensieri rigorosi per poter chiedere agli altri, in questo caso alla politica, altrettanta rigorosità.
Le elaborazioni non ci mancano, la 2° conferenza programmatica del 27 e 28 giugno scorso fornisce materiale di elaborazione abbondante, e questo congresso è l’occasione per aprirci, per confrontarci.
Chiudo questo capitolo con la citazione di Stiglitz, di un pezzo della teoria che gli ha fatto attribuire il nobel, a distanza di 15 anni da un altro economista, J. Buchanan, che nel 1986 vinse il premio nobel per la teoria della “scelta pubblica”.
“Il vero principio di regolazione dei servizi non è la concorrenza. In un mercato che non può essere tale, se vale l’idea di considerare i servizi pubblici beni comuni, non c’è per definizione concorrenza. Ciò che diventa determinante è il giudizio dei cittadini. Questo giudizio può essere sollecitato sulla base del raggiungimento di standars, la cui costruzione può essere condivisa in sedi di concertazione territoriale”.
Gli emendamenti che alla fine del congresso voteremo, in automatico arrivano anche alla camera del lavoro, credo di essermi prolungato abbastanza e di averne spiegato i contenuti e la filosofia, ora si tratta di confrontarci anche in casa nostra, con gli altri livelli dell’organizzazione, lo faremo in modo aperto e con l’umiltà necessaria, con onestà intellettuale e senza pensare di avere la verità in tasca.
Questo congresso, d'altronde, assume un importanza particolare per questo territorio perché si modifica la composizione, i confini, l’area entro la quale esercitare la propria attività. Ciò avviene in conseguenza della definizione delle nuove province.
La CGIL si è organizzata in funzione degli assetti istituzionali. Credo che fosse una scelta obbligata, immaginate un territorio che presenta una piattaforma territoriale, magari di recupero e sviluppo di aree urbane ma la piattaforma vale per tutta la provincia, tranne che per i paesi che fanno capo ad un’altra struttura della CGIL situata in un altro territorio. Sarebbe stato davvero poco comprensibile.
In questi giorni parlando con le compagne ed i compagni, ho potuto avvertire un senso di grande responsabilità, c’è la consapevolezza che da oggi inizia un periodo nel quale bisogna rimettersi in discussione, nei nuovi confini ci sono territori che vantano storie e tradizioni anche molto diverse da quelle di Cagliari.
Questo comporta acquisire nuove conoscenze, significa modificare ed allargare la costruzione del pensiero, significa valorizzare ed includere compagne e compagni che vivono realtà diverse.
L’organizzazione della struttura territoriale non potrà pensare di essere uguale a come la conosciamo oggi se vuole essere presente e dare risposte ai tanti posti di lavoro che da domani faranno riferimento a Cagliari.
Questa è la prima scommessa, l’aver allargato i confini territoriali è una grande opportunità, per crescere culturalmente e politicamente innanzitutto, preferisco fare un esempio: il 7 giugno del 2004 abbiamo presentato la piattaforma sulla sanità a Cagliari, se dovessimo farla oggi, quell’elaborazione sarebbe insufficiente, perché non tiene conto dei nuovi territori e quindi del bisogno di salute della popolazione che vi abita.
Voglio dirla con una battuta scusandomi per la semplificazione, quando si è aperto il dibattito sulla rete ospedaliera, per noi neanche si è posto il problema dei piccoli ospedali, parlavamo dell’alto rapporto tra posti letto e residenti.
Il problema di Cagliari è che circa un terzo di quei posti letto sono accreditati a strutture private i cui proprietari tendono al monopolio e fanno parte delle famiglie cosiddette potenti, penso al sindaco di Cagliari, strutture che utilizzano gli ausiliari o gli OTA per funzioni che spettano agli infermieri, ma li pagano come ausiliari o OTA, strutture che spesso neanche applicano i contratti di lavoro, strutture che spesso ritardano volutamente il pagamento degli stipendi ed in questo modo usano le lavoratrici ed i lavoratori per “ricattare” la giunta ed il Consiglio Regionale.
Da oggi Cagliari deve modificare il proprio modo di pensare, deve alzare lo sguardo ed includere anche il piccolo ospedale, penso ad Isili, situato in un luogo che fornisce le prestazioni ed è presidio di riferimento per zone che per conformazione territoriale, per la caratteristica delle strade, per la specificità del luogo insomma, chiuderlo sarebbe una scelta incomprensibile.
Ed ancora, nei territori della trexenta, del sarcidano, della barbagia di Seulo, ci troviamo di fronte ad una realtà in cui c’è il più basso rapporto popolazione per chilometro quadrato, con fenomeni di spopolamento ed emigrazione, dovuti all’altissimo indice di disoccupazione.
E’ del tutto evidente che le nostre vertenze dovranno tenere conto del tipo di economia del territorio, di quale tipo di presenza pubblica come precondizione di insediamento produttivo, dovremo elaborare piattaforme che stimolino politiche di sviluppo.
I congressi di base, per quanto sicuramente non sufficienti per via di accorpamenti che dovevano tenere conto del rapporto delegato iscritti e perché gli stessi accorpamenti sono stati costruiti con le strutture cedenti, ci hanno consentito di avviare un rapporto con le compagne ed i compagni. Si tratta ora di consolidare la conoscenza e costruire con loro i modi ed i metodi per interloquire al meglio nonostante la distanza.
Ne sono sicuro, sarà l’impegno del nuovo gruppo dirigente che uscirà dal congresso.
Un congresso che abbiamo tentato di fare nel modo più coinvolgente possibile, abbiamo tentato di far partecipare il maggior numero possibile delle iscritte e degli iscritti, voglio sgombrare il campo, sappiamo bene che si poteva fare ancora di più e meglio, ma siamo soddisfatti dei risultati.
In 95 assemblee congressuali hanno partecipato al voto 1722 iscritti, circa il 50% degli aventi diritto, come dicevo in precedenza i nostri emendamenti hanno ottenuto oltre il 90% del consenso.
Non era facile perché rispetto agli scorsi congressi, non c’erano due mozioni alternativamente e globalmente contrapposte, come si usava dire, la contrapposizione, è fisiologico, stimola la partecipazione, ci si conta, su quella conta si costruiscono gli organismi dirigenti, dunque si va in cerca del voto portando in assemblea tutti.
Questo congresso, invece, si è svolto su un unico documento, le uniche differenze sono state sulla tesi numero otto e sulla numero nove, ma non c’era nessun rapporto tra espressione di voto e delegato al congresso.
La percentuale delle vecchie mozioni è stata garantita dal documento di intenti firmato da tutti i segretari confederali, che hanno fotografato le percentuali del precedente congresso.
Tra il materiale che abbiamo distribuito c’è anche la disaggregazione dei voti ottenuti da ogni singola tesi, dove comunque si può vedere il quadro di consenso reale rispetto al congresso precedente.
Io penso che al di la dell’accordo dei dodici segretari, bisognerà pur tener conto di quanto uscito dal voto, altrimenti correremmo un rischio grave: l’ingessatura dell’organizzazione.
Inoltre diventerebbe veramente poco comprensibile aver presentato tre tesi sulla democrazia e contemporaneamente chiudere gli occhi sull’espressione del voto delle assemblee.
Ciò non vuol dire esclusione verso chi la pensa in maniera diversa, sappiamo bene che la ricchezza della CGIL sta proprio nella sua articolazione di pensiero, nelle sensibilità diverse, nel confrontarsi partendo da posizioni diverse.
Se ci pensate bene se in questi anni la CGIL ha rappresentato una speranza per molti, se ha consentito al centro sinistra di riprendersi dopo la sconfitta alle elezione del 2001, se è riuscita a portare in piazza tre milioni di persone per manifestare contro l’abolizione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, ciò è stato possibile per aver avuto la capacità di tenere insieme e portare a sintesi le diverse anime della CGIL.
Ed ancora oggi osservo un dibattito avanzato, per nulla scontato, tipico di un organizzazione con molti difetti, ma sicuramente in salute.
Io, come tutti voi, spero che alle prossime elezioni politiche vinca il centro sinistra, si tratta di un emergenza democratica, questo Governo ha fatto troppi danni, ma che le destre economicamente colpiscano i lavoratori lo trovo scontato, quello che trovo insopportabile è la lesione alla Costituzione.
Tra le cose che abbiamo fatto in questi anni rivendico anche aver proposto alla camera del lavoro di Cagliari, la costruzione del coordinamento cittadino salviamo la costituzione, coordinamento che, credo, entrerà nei comitati per il no allo stravolgimento della costituzione.
Ma, dicevo, spero che le elezioni le vinca il centro sinistra, il quale si troverà un paese da ricostruire, socialmente, economicamente, eticamente, culturalmente, quando si conosceranno i conti dello stato temo che troveremo un buco enorme, troveremo il petrolio.
In quelle condizioni sarà del tutto naturale, per chi governa, chiamare il sindacato per un nuovo patto, un patto di risanamento.
Quello sarà il punto critico per il governo, ma anche per la CGIL, perché se è vero come è vero che in questi anni siamo stati la speranza per molti, non reggiamo se il risanamento, perché è più semplice, perché ha la ritenuta alla fonte, perché in fondo ci è abituato, ricasca sulle spalle del lavoro dipendente.
La speranza è un sentimento collettivo, un sentimento a cui va data una risposta in termini di risultato, è come se fosse una manifestazione nazionale che organizziamo, prevediamo il viaggio di andata ma poi la gente non la lasciamo dov’è, la riportiamo a casa.
La speranza è la stessa cosa, si stimola, si fa intravedere, si diventa punto di riferimento, ma poi va portato a casa il risultato.
Nei nostri documenti congressuali individuiamo in mano a chi si è spostata la ricchezza in questi anni, sarà bene che nella fase di discussione di quel nuovo patto, la CGIL sia in grado di far vivere le cose che scrive, d'altronde se quest’organizzazione ha cento anni di storia, il motivo risiede nel fatto che ha saputo sempre rinnovarsi, ha saputo dare risposte concrete ai bisogni dei lavoratori, spero che saremo all’altezza dei nostri predecessori.
ANTICA POESIA INDIANA SENZA TITOLO
Non c’è felicità per chi non viaggia,a forza di stare nella società degli uomini,anche il migliore di loro si perde.Mettiti in viaggio.
I piedi del viandante diventano fiori,la sua anima cresce e dà fruttie i suoi vizi son lavati via dalla fatica del viaggiare.
La sorte di chi sta fermo non si muove,dorme quando quello è nel sonnoe si alza quando quello si desta.
Allora vai, viaggia.

E ALLORA BEVO …. DI EDUARDO DE FILIPPO
Dint’ ‘a butteglia n’atu rito ‘e vino è rimasto …Embèche fa m’ ‘o guardo?M’ ‘o tengo mente e dico<<>>
Dimane nun esiste.
E ‘o juorno primma,siccome se n’è gghiuto,manco esiste.
Esiste solamente stu mumento‘e chistu rito ‘e vino int’ ‘a butteglia.
E che ffaccio, m’ ‘o pperdo?
Che ne parlammo a ffa!Si m’ o perdesse Manc’ ‘a butteglia me perdunarrìa.
E allora bevo …E chistu surz’ ‘e vinoVence a partita cu l’eternità!
(1973)

mercoledì, agosto 23, 2006

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Oggetto: stabilizzazione precari negli Enti Locali

E’ di questi giorni la notizia delle dichiarazioni del Ministro della Funzione Pubblica, Luigi Nicolais, dove s’intende svecchiare e deprecarizzare la macchina amministrativa nel pubblico impiego creando un piano pluriennale di stabilizzazione dei precari storici assunti da diversi anni con le variegate forme contrattuali (co.co.co., tempo determinato ecc..), il tutto secondo la normativa vigente che pone il limite del concorso pubblico per l’assunzione negli enti locali e per evitare formazione di nuovo precariato.
Come Funzione Pubblica CGIL di Cagliari da diversi anni ci troviamo a sostenere che il lavoro tipicamente pubblico,deve essere svolto da dipendenti assunti a tempo indeterminato , non si può ricorrere impropriamente al lavoro precario, flessibile, per sopperire al blocco delle assunzioni negli enti locali.
Infatti, oggi, la maggior parte dei comuni hanno una dotazione organica ridotta ai minimi termini a causa dei vincoli che alcune finanziarie passate hanno posto.
Oggi per sopperire alla carenza organica degli enti locali, ma soprattutto per contrastare la precarietà cronica di stato, voluta dai governi precedenti, arriva l’opportunità di stabilizzazione per i circa 1200 lavoratori socialmente utili della Sardegna. Infatti con delibera dell’Assessorato Regionale al Lavoro n°33/13 del 25/7/2006, si indicano le modalità per la stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili negli enti locali, 258 nella sola provincia di Cagliari.
Questi lavoratori, che in più di una occasione sono stati definiti lavoratori in nero legalizzati, lavorano da oltre 10 anni negli enti locali andando a ricoprire posti vacanti negli organici con una notevole differenza salariale rispetto ai loro colleghi dipendenti,differenza di circa 500/700 euro e senza nessuna contribuzione per i fini pensionistici.
Come Segreteria Funzione Pubblica Cgil, a gli Enti Locali utilizzatori di LSU, stiamo chiedendo incontri perché attivino in tempi rapidi l’iter burocratico per la stabilizzazione dei Lavoratori Socialmente Utili nelle dotazioni organiche dell’ente..
Per rendere più forte l’azione e anche perché dopo aver difeso la costituzione la sosteniamo rispettando il suo primo articolo, chiediamo ai rappresentati di questa Organizzazione di attivarsi dentro le RSU perché predispongano un documento unitario con richiesta d’incontro alla parte pubblica per attivare le procedure di stabilizzazione in contrasto a tutte le forme di precariato.

Luca Locci

Cagliari 22 agosto 2006